II domenica di Avvento

Is 40,1-5.9-11; 2Pt 3,8-14; Mc 1,1-8

Marco apre il suo Vangelo, cioè il suo annuncio, con un termine antico e solenne: inizio, in greco arché, proprio come la prima parola della traduzione greca di Genesi e il Vangelo di Giovanni. Il proposito è molto chiaro: ci troviamo dinanzi ad una nuova creazione.
Giovanni Battista annuncia la buona notizi: Gesù che sta arrivando. Egli è la salvezza.
Da ben cinque secoli il popolo d’Israele non riceveva un annuncio profetico, l’Altissimo taceva.
Da questo silenzio sta per emergere il profeta mandato per invitare alla conversione, a quel grande cambiamento di vita che pone al primo posto la Torah.
Giovanni è Voce che annuncia, chiama, sollecita. Si fa sentire. La stessa Parola nella storia del popolo e nel nostro quotidiano che si fa storia.
Bisogna immaginare questa Voce aiutati dal verbo che viene usato per indicare la voce stentorea del banditore che sempre precede il re, ne annuncia la venuta e anche i suoi voleri.

Pure noi, se tendiamo l’orecchio e non lo otturiamo volontariamente, possiamo udire questa Voce e prestarle ascolto.
Talvolta ci difendiamo pensando che, vivendo in un deserto in cui le relazioni umane sono difficili o impossibili, in cui l’aridità impedisce di volgere lo sguardo in alto perché preoccupati soprattutto del quotidiano da gestire, arrivare ad accettare il Battesimo – indica soprattutto la consacrazione di se stessi all’Altissimo – è un’impresa improponibile.
Se però Giovanni battezzava nel deserto in cui notoriamente mancava l’acqua, non vuole farci capire che la dimensione è proprio quella spirituale, la stessa in cui oggi noi viviamo?
Nel deserto il popolo d’Israele ha potuto constatare la fedeltà del Creatore che lo ha sorretto nel faticoso percorso, lo ha aiutato a combattere la tentazione e, quando si è dimostrato infedele, gli è sempre andato incontro donando, una volta di più, la proposta del ritorno, della conversione.
Ciascuno e ciascuna di noi da questa Voce è chiamato a riconoscere nel contesto abituale, normale, le tracce dell’esodo, a seguirle per farne proprio il cammino con la guida di Dio.

La Voce continua a gridare, a scuotere per indurre ad accettare la promessa.
Se si accetta, si “esce fuori di sé”, si guarda verso l’altro, perché si è rivolto lo sguardo al Signore.
Fissare questo sguardo non significa cadere nell’immobilismo, perdere la propria identità, non cogliere le opportunità della vita. Ben al contrario, significa abbandonarsi al mutamento continuo, alla gioia della propria identità purificata e rinnovata. Vivere cioè gli attimi preziosi della salvezza imminente.
Non sono le condizioni sociali o i condizionamenti del vivere comune ad impedirci questo cammino, solo il peccato, vale a dire il rifiuto della sua Parola e l’essere autocentrati su progetti che si ancorano solo sul business, sul welfare o semplicemente sul proprio comodo, lo ostruisce.
Lasciarsi scuotere è impegnativo, difficile e contrario al quieto vivere.
La Voce però può spezzare ogni indugio e collocarci nell’attesa del Veniente.